İSİMSİZ - SENZA NOME
Racconto di Engin Akyürek dal n. 65 di Kafasına Göre - novembre/dicembre 2025 -
Traduzione in italiano
I campi coltivati, stesi come teloni sulla terra gialla, aspettavano di essere raccolti. Il sole tingeva di sé l'intero campo, salutando i volti sudati e le mani callose. Mancavano due giorni alla fine del lavoro e gli operai avevano iniziato a smontare le tende, preparandosi a tornare alle loro case.
Sfidando il sole, le spighe di grano cercavano di rimanere in piedi e il rumore prodotto dai loro corpi che si completavano a vicenda, ricordava una sinfonia. Il calore, l'odore di gasolio e i granelli di paglia gialla che volavano nell'aria avevano un suono.
Si appoggiò con il corpo nel punto più ombreggiato del campo ingiallito, come se sapesse cosa sarebbe successo. Era qualcosa che sentiva, più che sapere. Erano passati quattro mesi da quando era arrivato in questo campo giallo. Era stato portato da lontano nel cassone di un camion e anche se sentiva il motivo per cui era stato portato, non volle capirlo per molto tempo. Avrebbe protetto le tende arrangiate alla bell'e meglio, del resto, a dirla tutta, c'erano in tutto quattro tende. Avrebbe abbaiato ai ladri, avrebbe protetto i viveri lasciati fuori contro mute di sciacalli, volpi e lupi. Aveva provato a svolgere il compito che gli era stato affidato ed era stato costretto ad accettare le cose che non voleva capire. In cambio gli venivano dati cibo e acqua, ma non gli si accarezzava la testa né sentiva affetto misto a un sorriso. La durezza che il sole lasciava sul terreno si rifletteva sulle fronti corrugate, sugli sguardi duri, sui corpi che ricordavano il tronco di un albero.
Continuò a guardare con il corpo appoggiato all'ombra, sapeva che l'indomani sarebbero partiti. Avrebbe voluto abbaiare, pensò di scappare via, ma non ne ebbe il coraggio... Il giorno aveva cominciato a calare e il sole a dileguarsi, portando con sé tutto ciò che aveva lasciato. Sentì che aveva fame; in realtà aveva sempre fame, saziarsi completamente qui era impossibile. Era costretto a mangiare qualunque cosa gli venisse data. Si stiracchiò, cercò di annusare profondamente con il naso e iniziò a camminare a piccoli passi verso il luogo dove si trovavano le tende. Le tende erano state smontate, gli effetti personali raccolti, tutto era pronto per partire. Chi tornava dal campo si rinfrescava il viso, si cambiava i vestiti sudati e saltava sul cassone del camion, comportandosi con l'allegria tipica di una festa di matrimonio. Arrivò accanto alle tende smontate, scodinzolò, abbaiò come per dire 'sono qui', poi abbaiò ancora. Quello che aveva sentito all'ombra era esattamente questo: si sarebbero raccolti e sarebbero partiti. Voleva andarsene così come era arrivato qui; voleva tornare nel luogo in cui era nato, nel luogo di cui conosceva l'odore, dove si sentiva in pace. Mise le zampe anteriori sul cassone del camion; i volti che vedeva non lo guardavano, ciascuno intento a esprimere la propria incontenibile gioia. Cercò di salire sul cassone del camion, facendosi forza con le zampe anteriori, ma non ci riuscì. Nessuno lo guardava e l'allegria diffusa tutt'intorno lo rendeva ancora più irrequieto. Era come se non fosse mai arrivato lì, come se non fosse mai esistito in quel posto. Abbaiò per chiedere aiuto e il suo abbaiare si fece più insistente, perché se solo una mano lo avesse aiutato, sarebbe riuscito a saltare su. Cercò quel volto in mezzo alla folla, ma in quell'istante tutti i visi sembravano confondersi l'uno con l'altro. Il camion si mise in moto e iniziò a muoversi: le sue zampe anteriori rimasero sul cassone, mentre quelle posteriori rimasero sospese in aria. Provò a salire con tutte le sue forze, ma la velocità del camion non glielo permise. Non c'era nessuno che lo aiutasse, né un volto che lo guardasse; era come se lui non esistesse per nessuno… Le forze gli vennero meno e si lasciò andare. Cadendo a terra, sentì di nuovo qualcosa, ma ancora una volta non gli piacque ciò che sentì… il dolore delle pietre che gli si conficcavano nel corpo.
Rimase solo nell'oscurità. Il rumore del camion era un ronzio lontano. Il suo stomaco si rivoltò: nonostante la fame, vomitò fino a svuotarsi. Mancavano ancora due giorni alla loro partenza, non capiva perché se ne fossero andati prima. Le stelle brillavano in cielo come perle e il volto della luna che toccava l'oscurità si rifletteva sui rami degli alberi e sul terreno secco. Non sapeva in che direzione andare; non voleva tornare al luogo dove si trovavano le tende, così mosse i suoi passi verso la direzione in cui era andato il camion. Non c'era un suono che potesse udire, né un odore che potesse sentire. Nell'oscurità cercò una luce, un essere vivente. Le stelle diminuirono e ogni cosa illuminata dalla luna si tinse di un nero pece. Si abbandonò contro il tronco di un albero. Quando si svegliò, il sole era sorto. I suoni che si erano nascosti erano riemersi; ogni creatura vivente rappresentava una nota dei suoni che emergevano. Si guardò intorno, cercando di vedere annusando. La terra gialla aveva lasciato il posto a una strada asfaltata. Raddrizzò il corpo che aveva appoggiato al tronco dell'albero e si stiracchiò; più avanti c'era una grande cittadina. Capì di aver camminato più di quanto avesse percepito durante la notte. Lo stomaco gli si era appiccicato alla schiena per la fame e la lingua gli pendeva fuori dalla bocca per la sete. Cominciò a muoversi in direzione della cittadina e gli odori di cibo che percepiva lo fecero accelerare, almeno avrebbe potuto trovare un posto dove bere dell'acqua. Più il terreno era giallo, più la cittadina era verde e sembrava invitare ogni creatura vivente. Si sentì felice, il calore delle case graziose gli fece dimenticare la fame. Sembrava che il paradiso fosse nato all'interno di quella cittadina; non assomigliava né al luogo delle tende né alla terra in cui era nato. Ogni cosa era in ordine; i marciapiedi davanti alle case erano pulitissimi, e i frutti che sporgevano dai rami degli alberi ricordavano un bel quadro. Arrivò nella piazza della cittadina, davanti a un negozio di alimentari. Ai profumi che provenivano dall'interno non si riusciva a resistere. Abbaiò. Non sentendo arrivare alcuna risposta dall'interno, abbaiò di nuovo. Non riusciva a controllare l'eccitazione e non sapeva cosa fare per la fame. Uscì un uomo di mezza età, con il viso invecchiato e trascurato, e i baffi ingialliti. Sul volto dell'uomo c'era un'espressione che era l'esatto contrario di quella cittadina paradisiaca… Il cane scodinzolò e si avvicinò all'uomo. L'uomo rientrò, contraendo ancora di più la sua espressione arcigna. Il cane aspettava davanti alla porta nella speranza che gli portasse del cibo; non abbaiava, se ne stava buono. Poi sentì un dolore al ventre, gli si offuscò la vista e le zampe non furono più in grado di sorreggere il suo corpo, così si accasciò all'ingresso del negozio.
Per prima cosa, sentì qualcosa di freddo; il suo corpo era caldo, ma c'era un odore freddo che gli toccava il naso. Quando aprì gli occhi non riuscì a capire dove si trovasse; voleva percepire l'ambiente circostante, ma non ci riusciva. Era all'interno di una gabbia, in un luogo simile a un hangar, dove c'erano molti cani rinchiusi in altre gabbie. Vide l'acqua e i pezzi di pane, inzuppati nel brodo, che erano stati messi in un angolo e divorò tutto in un solo fiato. Stava cercando di capire dove si trovasse e di percepire qualcosa dagli sguardi degli altri cani. Se fuori c'era il paradiso, questo luogo rappresentava l'inferno. I collari che erano stati tolti erano stati gettati in un angolo. Si guardavano l'un l'altro dall'interno della gabbia con occhi spaventati, come prigionieri di guerra a cui erano stati tolti i vestiti. Il pane secco e l'acqua avevano in qualche modo alleviato la sua fame. I nomi dei cani erano scritti sui collari come pietre tombali. Sentì di non aver avuto un collare, di non aver avuto un nome: nessuno lo aveva mai chiamato per nome fino ad allora. Era solo un incrocio di lupo nero e magro di due anni. Guardò i collari e percepì gli sguardi tristi sui volti degli altri cani. Ogni creatura vivente avrebbe dovuto avere un nome, non ci aveva mai pensato fino a quel momento.
Fu sopraffatto dalla tristezza, iniziò a mettere in discussione tutto ciò che aveva vissuto. Un dolore che non aveva mai provato prima si insediò nel suo cuore. Se non fosse venuto qui, avrebbe continuato a vivere, bene o male, mezzo affamato, mezzo sazio. Era sempre così: all'improvviso cominciava a sentire qualcosa, e ciò che sentiva diventava realtà. Pensò a come avrebbe potuto continuare la sua vita anche se fosse fuggito da lì. Avrebbe dovuto avere un nome. Uno scopo... Pensarci gli faceva molto male. Cercò dolori simili sui volti degli altri cani, ma non li trovò. In ogni sguardo si nascondeva una storia diversa, una tristezza diversa. Pensò al suo nome, quale avrebbe potuto essere? Poi cercò di ricordare gli sguardi delle persone che lo chiamavano, forse ci sarebbe stato qualcosa che avrebbe potuto percepire. Iniziò ad avere sonno, aveva fame, era stanco... Mentre i suoi occhi cominciavano a chiudersi, il suo corpo iniziò a sentire di nuovo qualcosa. Ma questa volta non si limitò a sentire, vedeva tutto molto chiaramente: qualcuno con un viso angelico lo stava adottando. Quel viso umano non assomigliava a quelli che aveva visto; non riusciva a capire se fosse un uomo o una donna, ma c'era una pace nella sua voce, una gentilezza nelle sue mani e nel suo corpo. Si era avvicinato con passi pesanti, scegliendo lui tra gli altri cani. Gli aveva accarezzato la testa, lo aveva tirato fuori dalla gabbia e gli aveva sussurrato il nome all'orecchio.
Iniziò ad aprire gli occhi, non era nella gabbia, si guardò intorno. Si trovavano tutti in fila indiana su una collina, tutti i cani della gabbia. Tutti cercavano di capire cosa stesse succedendo, dove fossero. Provò ad annusare con il naso, non ci riuscì, volle abbaiare, non ci riuscì. Anche gli altri stavano provando a fare le stesse cose, senza successo. Sebbene non sapesse cosa stesse accadendo, iniziò a sentire che si trovava ormai su una collina, in un luogo molto lontano dal mondo… Più avanti c'era una foresta simile al paradiso, tutti guardavano quella foresta, sentivano che avrebbero trovato lì una pace che non avevano mai provato prima…
Engin Akyürek

Commenti
Posta un commento