HUZURLU GÜNLER - PACE AI TUOI GIORNI

Huzurlu günler - Pace ai tuoi giorni - Racconto di Engin Akyürek pubblicato sul n. 64 della rivista Kafasına Göre


Racconto di Engin Akyürek dal n. 64 di Kafasına Göresettembre/ottobre 2025 – 


Traduzione in italiano




Come se non bastasse sopportare il peso della vita, si era anche trasformato in un uomo che portava le damigiane come ricompensa per la sua mancanza di competenze.


Alla domanda: «In questa vita, cosa hai mai fatto bene?», non stava trovando risposta né nel corpo né nell’anima. Ci aveva provato, si era occupato di questioni che non gli competevano, ma nonostante la sua altezza era rimasto schiacciato sotto il peso di cose più grandi di lui. Quando non funziona, non funziona: ogni forzatura si spezzava nel punto più duro, là dove faceva più male. Questa era la più antica delle verità, insinuata fin nelle particelle subatomiche della vita. Quella prospettiva antica secondo cui “tutto ciò che accade è per il meglio”, si trasformava nella formula della felicità per chi si era impegnato e non era riuscito. Serkan non era infelice perché portava a spalla i boccioni d’acqua, ma nemmeno felice. Anche se liquidava la formula della felicità con un “Se non sono infelice, allora sono felice, ecco…”, cercava e attendeva la felicità in forme concrete, come l’alba del sole o la brezza che ci rinfresca: non si poteva essere felici in modo astratto.

Un uomo che aveva faticato a finire il liceo, doveva conoscere i propri limiti, trovare le ragioni del proprio insuccesso nella propria natura e nelle proprie scelte. Serkan lo aveva fatto per anni, riuscendo a mettere in equilibrio la sua mente con la sua anima. Ma quando vedeva dove erano arrivati coloro che avevano conseguito solo la licenza elementare e si erano impegnati meno di lui, dentro di lui cominciava a crescere tutto ciò che gli serviva per essere infelice. Da tre anni portava damigiane sulle spalle, saliva ai piani senza ascensore, aspettava chi non aveva preparato i soldi, chi non trovava il portafoglio, chi non lasciava la bottiglia vuota sulla porta; senza curarsi delle derisioni di persone dal volto spregevole, dallo spirito insignificante e dalla voce insipida, faceva il suo lavoro. Serkan non parlava mai mentre lavorava: i clienti che da lungo tempo compravano da lui l’acqua in boccioni, avevano finito per credere che fosse muto. Quando qualcuno gli rivolgeva una domanda, riuscire a rispondere con il linguaggio del corpo lo sollevava e persino le damigiane che trasportava gli sembravano improvvisamente leggere. Non amava parlare inutilmente e accompagnava il linguaggio del corpo con suoni che emetteva dal naso. Più un uomo parlava poco, più diventava uomo… 

Il suo capo, con voce roca per il caldo, lo aveva pungolato:

«Muto! Porta tre damigiane, l’indirizzo è sul foglio.»

Chiamarlo “capo” era un eufemismo, in quanto l’unico dipendente era Serkan, eppure quell’uomo, in cinque metri quadrati, si sentiva il capo di una grande azienda. Serkan lo salutava la mattina con un “Buongiorno” e la sera, dopo aver portato dentro i vuoti, con un "Buonanotte", considerando tutte le altre frasi inutili. Portò le tre damigiane con il carrello all’indirizzo scritto sul foglio: con le lunghe braccia ne prese due sulle spalle e una nella mano destra. Era la prima volta che andava a quell’indirizzo: si trattava di una delle vecchie case in legno di Istanbul, a tre piani, con un grazioso giardino. Entrando, sapeva bene dove mettere le damigiane e da chi prendere i soldi rapidamente, ma entrò così in fretta da non capire subito dove si trovasse. Dalla porta d’entrata, sporse per un attimo la testa dentro al corridoio interno; c'era una porta che separava la zona della sala, cosa comune nelle vecchie case dotate di stufe: sul vetro opaco si riflettevano alcune sagome. Serkan lasciò i boccioni vuoti a terra e, preso da una curiosità insolita per lui, infilò dentro la testa, lunga quanto la sua altezza. In una stanza che sembrava un soggiorno, delle persone anziane chiacchieravano tra loro, qualcuno giocava a tavla (backgammon, ndt), un’adorabile nonnina seduta accanto alla finestra cercava di cucire qualcosa e un brusio di voci basse riempiva la stanza.
Alla vista degli anziani, Serkan capì che si trattava di una casa di riposo. Chiuse la porta e stava per andarsene quando incrociò lo sguardo di un vecchio seduto in un angolo. La testa grande e il corpo robusto lo inchiodarono sulla soglia. Anche se i suoi capelli e la sua barba erano diventati bianchi e la sua pelle si era trasformata in un campo arido, il suo sguardo non era cambiato. Serkan ricordò chi fosse quell’anziano, ma non aveva intenzione di avvicinarsi e distolse lo sguardo. Stava per chiudere la porta e uscire quando sentì:

«Giovanotto!»

Serkan si bloccò, incapace di guardare il vecchio in faccia.

«Giovanotto vieni, vieni qui da me.»

Serkan avrebbe voluto allontanarsi in fretta da lì, ma non ci riuscì. Con il corpo inchiodato a terra, indietreggiò lentamente, dirigendosi verso la sala e incrociò di nuovo lo sguardo del vecchio che, con voce inaspettatamente risonante come non ci si sarebbe aspettati dal suo aspetto, disse facendosi sentire in tutta la sala:

«Giovanotto vieni, vieni qui da me.»

Gli altri anziani non reagirono a quel richiamo, era come se in quella sala esistessero soltanto Serkan e il vecchio. Trascinando i piedi, Serkan si avvicinò. La voce dell’uomo era forte quanto il suo sguardo:

«Giovanotto, mi hai riconosciuto?»

Gli occhi timidi di Serkan si posarono sulle sue guance arrossate.

«Sì, mi ricordo.»

«Bravo, chi sono io?»

«Il professore di matematica, Mürsel Hoca (hoca vuole dire maestro, ndt).»

«Bravo…»

Serkan si ricordava di Mürsel Hoca, ma era sorpreso che il professore si ricordasse di lui.

«Professore, lei non è cambiato molto… ma come ha fatto a ricordarsi di me? Sono passati quasi venticinque anni.»

«Io mi ricordo di te, ma non riesco a ricordare il tuo nome.»

«Serkan Yılmaz, ero nella classe 11-D al liceo Atatürk.»

«Sì, ora ricordo.»

Serkan era scarso in matematica: consegnava i compiti in bianco e, in cambio, si beccava il righello in testa. Il righello di Mürsel Hoca era famoso: l’intensità del colpo variava a seconda del risultato del compito.

«Professore, ero scarso in matematica… mi sorprende che lei si ricordi di me.»

«Siediti qui giovanotto, parliamo un po’.»

Quel giorno cominciò la conversazione tra Serkan e il professor Mürsel: si aprirono vecchi capitoli e Serkan, che di solito non parlava mai, si trasformò in chiacchierone: raccontava, e Mürsel Hoca ascoltava, a volte interveniva, dispensando consigli maturati con l’età. Per Serkan, Mürsel Hoca era stato un uomo privo di comprensione e malvagio, che aveva perso ogni speranza negli altri. Serkan non aveva mai amato la matematica per via della paura che gli incuteva e per dispetto contro i righelli che sapeva si sarebbe preso, consegnava i fogli in bianco. Per Serkan i fogli bianchi erano il simbolo della sua rivolta contro la vita… 
Dopo l’incontro con Mürsel Hoca, rifletté molto sulle ferite che aveva causato nella sua vita, al modo in cui aveva distrutto la sua autostima, all’umiliazione davanti a tutti, all’orgoglio spezzato… Tutto questo era rimasto annidato dentro di lui, in attesa di crescere.
Ogni settimana andava a trovarlo, portandogli dolci o börek (torta salata ripiena dalla tipica forma a spirale, ndt), a seconda di cosa avesse voglia quel giorno e quando Mürsel Hoca lo vedeva arrivare alla casa di riposo, spalancava le braccia e diceva:

«Pace ai tuoi giorni.»

«Pace ai tuoi giorni, maestro.»

Anche Serkan aveva iniziato ad adeguarsi a quel rituale. Era la prima frase che diceva ogni volta che qualcuno arrivava da fuori… Quando poi usciva, anche se non si sentiva davvero sereno, rivelava a sé stesso che apprezzava il fatto che qualcuno lo ascoltasse senza pretendere nulla in cambio. Ogni notte, però, era costretto a fare i conti con quelle voci che gli tornavano in mente: «Per colpa tua al liceo sono diventato un tipo insignificante, oggetto di scherno; i righelli che mi spaccavi in testa non hanno ferito il mio corpo, ma hanno fatto a pezzi il mio orgoglio.»

Da sei mesi, ogni domenica, andava a trovare Mürsel Hoca, senza riuscire a scrollarsi di dosso quelle voci incollate alla sua mente. Si figurava di uscire, affrontarlo e lanciargli il börek in faccia: «Maledetto! Che ti vada di traverso, sporco bastardo! Sono mesi che ti porto tutto ciò che vuoi senza vergogna! Ho perso tutte le cose belle della mia vita per colpa tua!» Quando immaginava queste scene ad alta voce, gli pareva di colmare il vuoto dentro di sé: provava il sollievo di aver trovato il colpevole del suo insuccesso. Andare da Mürsel Hoca era, in un certo senso, una specie di riabilitazione.
L’uomo non parlava molto, mangiava i dolci o i börek, ma più Serkan parlava, più migliorava, le sue frasi balbettanti si aggiustavano e l’anima trovava pace. Stava sperimentando la libertà che deriva dal trovare l'assassino dentro di noi.
Serkan non era più il muto portatore di damigiane: aveva sempre una frase, un’obiezione per tutto. Chi lo credeva incapace di parlare rimaneva sorpreso, in silenzio davanti alle sue parole. Il vecchio Serkan era sparito: la voce dentro di lui si era risvegliata e le frasi accumulate per anni erano ormai giunte alla lingua.

Era passato più di un anno di conversazioni con Mürsel Hoca. Non poteva continuare così, bisognava troncarla là dove faceva più male…

Come ogni domenica, si preparava ad andare in casa di riposo per vomitare tutte le frasi che si era ordinato nella mente. L’anima era in agitazione, il corpo calmo. Quella settimana Mürsel Hoca aveva chiesto una pide con carne macinata (pane turco farcito dalla tipica forma a barca, simile alla pizza, ndt) e ayran (bevanda turca a base di yogurt, ndt). Serkan comprò ciò che serviva e si incamminò a passo veloce verso la casa di riposo. La folla domenicale sulla via era in sintonia con il ritmo della sua voce interiore: i rumori confusi e insignificanti si riflettevano nel ritmo del suo cammino. Oggi era il giorno del giudizio: gli avrebbe scagliato in faccia le sue pide e le frasi che erano già pronte a memoria.

Ripetere dentro di sé le frasi gli faceva così bene che, ecco, la libertà doveva essere proprio questo… Entrò nella casa di riposo e come sempre infilò la testa oltre la porta: Mürsel Hoca era seduto sulla sua sedia, al suo posto. L’odore della pide con la carne macinata gli colpiva le narici con forza e il profumo di cipolla fresca, mescolato all’impasto appena cotto, gli sembrava una promessa di libertà. Serkan avvolse il sacchetto che aveva in mano tra le dita, in modo da poterlo colpire dritto in testa e tenne sotto controllo il respiro. Mentre entrava, una voce sconosciuta lo trattenne, prima con il tono e poi con un dito che gli punzecchiava la schiena:

«Figlio, mi ascolti?»

Quando si voltò trovò una vecchietta paffuta, dalle guance rosse, la pelle chiara e una voce più vecchia della sua età.

«Dimmi, zia.»

«Figlio mio, devo dirti una cosa.»

«Dimmi pure.»

Intanto il profumo della pide che Serkan teneva in mano iniziò a diffondersi nella casa di riposo.

«Figlio mio, è da mesi che origlio le vostre conversazioni.»

Mentre parlava la vecchietta paffuta guardava dentro e, come se sentisse l’aroma della pide con carne macinata, si leccava le labbra e inspirava profondamente con il naso.

«Ti ascolto, zia.»

«Figlio mio, quest’uomo non si chiama affatto Mürsel.»

«Come sarebbe?»

«Ti sta ingannando, si chiama Şakir e non è nemmeno un insegnante.»

«Come sarebbe?»

«Tu vieni la domenica, ma ogni giorno c’è qualcuno che viene a trovarlo.»

«Come sarebbe?»

«Ieri c’era un ragazzo elettricista: con lui si chiamava Fahri.»

Mentre ascoltava la vecchietta paffuta, Serkan iniziò a sentire il profumo della cipolla bruciargli lo stomaco, rivoltargli l’interno.

Da dentro, una voce profonda rimbalzò nell’ingresso della casa di riposo: Mürsel Hoca, vedendo Serkan attraverso la porta socchiusa, aprì le braccia e disse:

«Pace ai tuoi giorni.»



Engin Akyürek

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