ARIF

Immagine di Kafasına Göre con il racconto di Engin Akyürek intitolato Arif

Racconto di Engin Akyürek dal n. 63 di Kafasına Göre 

– luglio/agosto 2025 – 



Traduzione in italiano





“Ogni storia viene raccontata per coprirne un’altra.” - Margaret Atwood


Erano passati venticinque anni.

In momenti come questi il mio cervello elabora tutto molto velocemente e tutti i ricordi riaffiorano fin nei minimi dettagli. Ho rivisto Metin a un matrimonio dopo venticinque anni. Io ero invitato da parte della sposa, lui da quella dello sposo. Tra di noi c'erano persone che ballavano l'halay(1), chi si lasciava trasportare dal ritmo della musica e adolescenti che avevano trasformato la pista da ballo in un parco giochi. L'ultima volta che l'avevo visto era stato alla cerimonia per il diploma, al liceo. L'angolazione da cui lo vedevo cambiava continuamente a seconda della velocità del capofila dell’halay, ma l'avevo riconosciuto non appena l'avevo visto. Non distoglievo lo sguardo da lui e sentivo che anche lui mi aveva notato. Pensai che le persone sedute accanto a lui fossero sua moglie e i suoi figli: la stessa carnagione, lo stesso naso, la stessa serietà… Dal suo linguaggio del corpo era chiaro che si stava sforzando di non guardarmi.

(1) danza popolare collettiva che si svolge in girotondo, i cui partecipanti si tengono le mani o le spalle l'un l'altro e fanno movimenti ritmici sincroni, seguendo quelli fatti da colui che guida

I ballerini dell'halay si erano dispersi ai loro posti e la sposa e lo sposo erano scesi in pista. Guardavo Metin senza battere ciglio. Se avessi ricevuto un segnale, avrei trovato il coraggio di andare da lui. Sembrava che fosse stato degradato, che la sua anima si fosse ritirata in lui e che tutti i suoi colori si fossero dispersi. Non credo che qualcun altro, a parte il nostro gruppo del liceo, avrebbe potuto riconoscerlo. Metin era uno degli studenti più attraenti e talentuosi della scuola, scriveva racconti, leggeva molto, suonava la chitarra e tutte le ragazze gli andavano dietro…

Il mio corpo, reclinato all'indietro, si pavoneggiava con la sicurezza data dall'essere uno scrittore riconosciuto. Ero entrato nel locale con aria spavalda ed ero stato fatto accomodare al tavolo migliore, ma alla vista di Metin i miei castelli di sabbia crollarono. Fu un'onda arrivata da dove meno me l'aspettavo: se fossi stato preparato, se avessi saputo che ci saremmo incontrati, non sarei crollato emotivamente così, non mi sarei chiuso in me stesso. Tutto ciò che credevo di aver dimenticato si era riversato al centro della cerimonia.

Avevo conosciuto Metin l'anno in cui avevo cominciato a scrivere per la rivista della scuola. Metin scriveva per la rivista scolastica già da due anni e decideva ogni dettaglio: chi avrebbe scritto e chi no. Aveva una leadership nascosta nel suo essere e la portava accuratamente. Alcune persone possiedono qualità indefinibili, che pur sembrando prive di senso quando descritte, sono più potenti dei loro aspetti visibili…

Quando ci incontrammo, sentii che mi voleva bene. Riguardo al mio primo racconto, anche se non era niente di che, aveva detto alcune cose gentili e poi acconsentito alla sua pubblicazione. Grazie a lui avevo conosciuto autori che non avevo mai sentito nominare e libri che non avevo mai letto. Ciò che scriveva era magnifico. In fondo, lo invidiavo per la sua capacità di scrivere così bene senza alcuno sforzo e per non farlo trasparire cercavo di celare la situazione con manifestazioni di affetto esagerate. Sapevo che era consapevole di questa situazione, ma a lui piaceva quell'affetto superfluo.

Tutti coloro con cui stringeva amicizia si erano trasformati in una folla che alimentava il suo ego smisurato. Pensavo che, grazie alla rivista della scuola, la nostra amicizia stesse cominciando ad approfondirsi e, più lo conoscevo, più sentivo di scrivere meglio. Non avevo la pretesa di diventare uno scrittore, probabilmente sarei diventato un ingegnere, ma scrivere mi dava così tanta soddisfazione che avevo iniziato a costruire un nuovo mondo per me stesso.

Ogni volta che lo vedevo, un sorriso si disegnava sul mio volto e gli offrivo lusinghe, approvando ogni sua parola, pur di ottenerne l'amicizia. Non mi importava di chi mi accusava di fare il ruffiano, era un accordo reciproco. L'autostima derivante dallo scrivere per la rivista scolastica si rifletteva persino nel mio abbigliamento, nel mio modo di camminare e in quello di parlare con le ragazze. Per coloro che scrivevano sulla rivista, Metin non era solo un amico, ma un punto di riferimento. Pensavo continuamente a cosa avrei scritto e mi lanciavo alla ricerca di storie che non avrei nemmeno osato immaginare.

Ero tra i pochi che invitava a casa sua.

Ascoltavamo l'album 'Reload' dei Metallica sul mangianastri. Lui era appoggiato allo schienale, cercando di tenere il ritmo con la sua chitarra classica:

"Parteciperai al concorso di racconti?"

"Non so, non ci ho mai pensato."

Due mesi dopo ci sarebbe stato un concorso di racconti. Era importante per i giovani scrittori, perché la giuria includeva personalità letterarie ed editori e, se arrivavi primo, il tuo libro veniva pubblicato. Metin l'anno precedente era arrivato secondo ma, non riuscendo a digerirlo, non ne parlava mai e si comportava come se non avesse mai partecipato al concorso.

Continuando a tenere il ritmo con la chitarra:

"Quest'anno ho in mente una storia forte."

Fu lui ad aprire l'argomento. Significava che avremmo potuto parlare dell'anno precedente.

"Quest'anno ho una storia vera in mente. Tu non pensi di partecipare?"

Non ci avevo proprio pensato e poi non avevo nemmeno una storia da poter inviare al concorso. Era impossibile vincere con i racconti che scrivevo per la rivista della scuola.

"Non so, non ci ho mai pensato."

"Hai due mesi di tempo. Se vuoi, riflettici un po'."

Cosa avrei scritto? Non avevo una storia in mente e neanche pensavo che ne avrei avuta una in due mesi.

"Ci rifletto un po', poi magari te ne parlo."

"Va bene, ne parleremo."

Di solito non gli facevo mai domande su ciò che scriveva, ma lui aveva voluto parlare così, quasi sussurrando, gli chiesi:

"Tu che cosa hai in mente?"

Posò la chitarra da parte. Il mangianastri si era fermato. Nella stanza calò il silenzio, in attesa della sua risposta.

"Non sono sicuro, ma scriverò la mia storia. Ho scoperto di essere stato adottato a dieci anni. Fino a quel giorno ero un bambino introverso. Non so… Questa informazione mi ha reso una persona diversa, in qualche modo."

Ero sbalordito. Metin aveva condiviso apertamente un'informazione molto riservata sulla sua vita.

"Scriverai di questo?"

"Non so. Forse ci rinuncerò. Ho tante storie in testa.”

In realtà, sembrava che volesse condividere questo più che scriverlo. Nei suoi occhi era come se avessi visto un piccolo bambino ferito, come se fosse stanco di nascondere qualcosa.

Le parole di Metin mi rimasero in mente per giorni. Conoscevo il seguito della storia di un bambino che a dieci anni aveva scoperto di essere stato adottato. Avevo capito che Metin non avrebbe scritto quella storia. Aveva persino già iniziato a scriverne un'altra. Lui non mi chiese cosa avrei scritto e anch'io avevo tenuto i miei pensieri per me. Non so perché lo feci, ma senza dirlo a nessuno scrissi la storia di Metin e la inviai al concorso. Anche se dentro di me provavo vergogna e paura, pensavo che la questione sarebbe stata dimenticata in breve tempo.

Avevo perso le speranze per il concorso, finché il nostro professore di letteratura non ci diede la notizia. Il mio racconto, intitolato Arif (Il saggio, ndt), era arrivato primo al concorso. La notizia si diffuse rapidamente nella scuola. Il mio racconto cominciò a circolare di mano in mano sulla rivista della scuola e nelle classi. Tutti si congratulavano con me, mi vedevano come l'orgoglio della scuola, il grande scrittore del futuro, ma la paura e il rimorso dentro di me crescevano un po' di più ad ogni complimento e stavano diventando parte del mio corpo. Mi chiedevo cosa avrebbe detto Metin. Mi osservava da lontano e nei suoi occhi portava una delusione che solo io potevo capire. Quel giorno si congratulò con me in silenzio e dal suo silenzio capii che aveva letto il racconto e che mi considerava un ladro.

Mi davo spiegazioni logiche: dopotutto avevo scritto io quel racconto, erano le mie frasi, avevo creato io il personaggio di Arif. Ma da quel giorno Metin non mi parlò più e io non trovai mai il coraggio di affrontarlo. Magari si fosse piantato davanti a me, dandomi un pugno in faccia e dicendo: "Hai rubato la mia storia!" Magari mi avesse umiliato davanti a tutta la scuola. Più volte avrei voluto parlargliene, ma non ci riuscii mai e in un certo senso, mi faceva comodo. Agli occhi di tutti, ero arrivato primo con una storia originale ed ero un brillante scrittore.

Dopo quel concorso, era come se le mie opere fossero state toccate da una bacchetta magica. La fiducia in sé stessi è una cosa così. La porta verso nuove storie si era aperta all'improvviso. Negli anni dell'università, i miei libri vennero pubblicati, iniziai a ricevere premi e a guadagnare soldi. Anche se vedevo pochissime persone del liceo, sapevo più o meno chi faceva cosa. Ma non osai mai chiedere di Metin, nonostante la curiosità mi divorasse… Anche se di tanto in tanto lo cercavo sui social media, non c'era nemmeno un account a suo nome. Era evidente che non scriveva più e che aveva abbandonato la scrittura.

Anni dopo, mi arrivò una notizia da Akın, che avevo conosciuto tramite la rivista della scuola:

"Fratello, Metin del nostro liceo si è suicidato il mese scorso. Ma per fortuna lo hanno salvato."

"Perché?"

"Non lo so, ma è vivo."

Quando riattaccai il telefono, le domande che avevo soffocato per anni si rianimarono all'improvviso dentro di me.

Dopo il taglio della torta, i parenti con le guance arrossate e un po’ brilli avevano iniziato lentamente a tornare a casa. Questo indicava che il matrimonio era finito. Metin stava cercando di svegliare i suoi figli che dormivano sulla sedia. Avrei fatto la confessione che non ero riuscito a fare per anni, proprio al centro della pista da ballo del matrimonio. Metin prese in braccio i suoi figli: ne diede uno alla moglie e lui tenne quello più grande. Non potevo permettergli di andarsene. Mi alzai subito dal mio posto.

Sua moglie era dietro di lui e io mi piazzai davanti a loro come una barriera.

"Come stai, Metin? Ti ricordi di me?"

"Scusi?"

"Al liceo… Ti ricordi?"

"Credo che mi stia confondendo con qualcun altro. Il mio nome non è Metin."

Mentre parlava aveva abbassato la voce. Sembrava che non volesse che sua moglie sentisse o forse fui io a percepirlo così, ma nei suoi occhi c'era Metin. Amareggiato, risentito…

Mi scivolò accanto e se ne andò con la famiglia. Non sapevo se fosse Metin o no, ma sembrava che volesse punirmi. Voleva che vivessi tutta la mia vita con questa colpa? La prima cosa che mi venne in mente fu di chiedere chi fosse agli invitati che si stavano disperdendo, ma di nuovo non riuscii a farlo. Stavo facendo esattamente la stessa cosa che avevo fatto al liceo o quando avevo sentito la notizia del suicidio, ignorandola.

Avevo in mente una sola cosa: andare a casa e scrivere la vera storia di Metin.

Il suono della prima frase mi risuonava nelle orecchie:

Erano passati venticinque anni…

 

Engin Akyürek

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