Racconto di Engin Akyürek dal n. 60 di Kafasına Göre – gennaio/febbraio 2025 –
Sul quaderno a righe che teneva sulle ginocchia, ogni sera riversava meticolosamente i suoi sentimenti. Scriveva tutto ciò che era accaduto quel giorno, senza tralasciare nulla, lasciando che la matita seguisse i suoi ordini senza filtrare le emozioni, scendendo nei minimi dettagli. Con una piccola torcia illuminava la coperta che somigliava a una tenda di soccorso e, per non far scaricare la batteria, arrotondava le ultime frasi e concludeva la serata con tre puntini di sospensione. Ogni sera iniziava con la stessa frase:
Io sono Yaşar Yılmaz, un orfano di quattordici anni… Non so chi siano mia madre e mio padre, e da quando ho memoria vivo in questo orfanotrofio…
Scritta questa frase sul quaderno, l’ombra disturbante della realtà cominciava a parlare e le frasi che toccavano le sue emozioni si arrendevano docilmente alla verità. Ogni volta che cercava di scrivere i suoi sentimenti, le ombre che infestavano il suo sonno lo scuotevano, strattonandolo qua e là per svegliarlo.
Ogni giorno sembrava la copia del precedente... Muri con l'intonaco scrostato, luci al neon ingiallite, l'odore di fuliggine che si insinuava furtivo dalla finestra, toni di voce taglienti, frasi cariche di sarcasmo… Se essere orfano avesse un odore, e certamente lo aveva, quell'odore si impregnerebbe prima nelle lenzuola, per poi fissarsi per sempre negli sguardi umidi. L'espressione perennemente malinconica negli occhi di Yaşar era la prova di tutto questo.
Le luci erano spente e tutti nel dormitorio si erano rintanati sotto le coperte, in posizione per dormire. C’era chi starnutiva, chi tirava su col naso, chi cercava di respirare attraverso il naso chiuso, chi russava trasformando il proprio respiro in una ninna nanna… Tutti questi suoni si univano, vagavano tra le fredde pareti e si riflettevano come un’ombra sulle tende sporche.
Tutti quei suoni strani avevano un'ombra. Per chi trascorreva la prima notte erano spaventosi, ma con il tempo, in qualche modo, ci si abituava. Yaşar, sfidando le ombre che vagavano sopra di lui, aveva acceso la sua piccola torcia sotto le coperte. Più aumentavano le ombre, più il numero di chi si addormentava cresceva. Yaşar sporgeva la testa fuori dalla coperta, controllava le ombre proiettate sulle tende e, una volta sicuro che tutti dormissero, iniziava a scrivere qualcosa. Quella notte, un'intensa inquietudine che spazzava via tutte le ombre, vagava dentro di lui.
Oggi faceva così freddo che non ho nemmeno voluto uscire nel cortile dell’orfanotrofio. Da quando ho memoria, un sentimento che non riesco a definire mi governa; anche se non voglio, quel sentimento nascosto dentro di me prende il controllo. I miei piedi mi hanno portato nel cortile del dormitorio. A quell’ora, il cortile solitamente era affollato, ma probabilmente a causa del freddo non c’era nessuno.
Nel punto più appartato del cortile c’è un enorme albero di pino; è così imponente e grande che i suoi rami si estendono oltre il muro di cinta, invadendo la strada. Potrebbe essere l’essere vivente più grande che abbia mai visto. Non è ben visto andare negli angoli più remoti del cortile o avvicinarsi troppo al muro di cinta, non è qualcosa che viene accettato di buon grado eppure, i miei piedi, trascinandosi lentamente, hanno condotto il mio corpo accanto al pino. Anche se non sapevo perché fossi lì, sembrava che quel sentimento dentro di me sapesse benissimo il motivo, si era nascosto all’ombra dell’albero e mi aveva guidato verso quel suono rauco.
Un cane bianco era sdraiato e mi guardava. Dalle sue mammelle cadenti ho capito che era una femmina e che aveva partorito da poco, ma non c’era alcun segno dei suoi cuccioli nei dintorni. Quando mi ha visto, ha scodinzolato e mi ha guardato con occhi pieni di compassione.
Anche se non conoscevo il significato della parola “compassione,” ho percepito che fosse qualcosa di buono, perché mi scaldava dentro.
Yaşar diede un’occhiata veloce a ciò che aveva scritto; la pila della torcia cominciava a esaurirsi. Per la prima volta dopo tanto tempo, era riuscito a scrivere qualcosa senza iniziare con la frase “Io sono Yaşar Yılmaz, orfano”. Ma non sapeva se ciò che aveva scritto fosse reale o solo frutto della sua immaginazione.
Chiuse il quaderno e, preso dalla paura delle ombre che avrebbero infestato il suo sonno, si strinse forte nella coperta. Dentro di sé, si rimproverava: “Da dove è spuntato fuori quel cane? Perché l’ho scritto?”, cercando di addormentarsi con quei pensieri.
Quando si svegliò al mattino, si rese conto che il sonno era stato sereno, accompagnato da una quiete che non provava da tempo. Non c’erano state ombre a tormentarlo, né nulla che lo avesse strattonato nel sonno.
Rileggendo ciò che aveva scritto più e più volte, Yaşar voleva dimostrare di essere coraggioso di fronte alle ombre. L’ultima frase che aveva scritto “due occhi pieni di compassione” gli aveva fatto così bene che i suoi occhi umidi si erano asciugati, lasciandogli un caldo conforto dentro.
Yaşar aveva iniziato a raccontare a tutti nell’orfanotrofio della cagnolina bianca. L’aveva persino battezzata con un nome:
Quando mi chiedevano come si chiamasse, dicevo ‘il cane bianco’, ma doveva avere un nome. Dare un nome a un essere vivente è molto difficile. Non so chi siano mia madre e mio padre, ma si saranno trovati in difficoltà a darmi il nome Yaşar? Ho deciso di chiamare la mamma cane ‘Pamuk’. (Pamuk letteralmente vuol dire cotone quindi, utilizzato come nome proprio, probabilmente vuole esprimere l'idea di un soggetto candido come il bianco e morbido come i batuffoli di cotone, ndt)
Senza scrivere di Pamuk Anne (mamma Pamuk) sul quaderno, Yaşar aveva iniziato a raccontare a tutti nell’orfanotrofio i pensieri che gli passavano per la testa e le frasi che gli toccavano il cuore. Gli altri bambini volevano sapere chi fosse questa Pamuk Anne e desideravano vederla. Volevano provare quella compassione e quel calore che non avevano mai sentito dalle loro madri.
"Stai mentendo, ragazzo, siamo andati lì tante volte e non l’abbiamo mai vista."
"Vi dico che esiste, perché non mi credete? Come potrei inventarmi una cosa del genere?"
Anche se il numero di chi non gli credeva cresceva, ogni sera prima di dormire insistevano perché Yaşar raccontasse ancora di Pamuk Anne. Per loro, era una storia capace di disperdere tutte le ombre.
Ascoltavano Yaşar come fosse una ninna nanna che disperdeva tutte le ombre e riscaldava i loro cuori. Yaşar aveva ormai abbandonato il quaderno e raccontava alla camerata che cercava di addormentarsi ogni dettaglio sui cuccioli di Pamuk Anne: quanti erano, maschi o femmine, e dei loro colori, uno per uno. Erano sei e persino i loro nomi erano già stati scelti.
Tuttavia, Yaşar aveva attirato l’attenzione di alcuni compagni: c’erano quelli che lo seguivano da lontano, chi lo spiava, chi cercava di coglierlo da solo in giardino. Una sera, al tramonto, Yaşar, con un sacchetto pieno degli avanzi raccolti dalla mensa, si diresse verso il cortile. Camminava come se sapesse esattamente dove trovare Pamuk Anne, avvicinandosi al grande albero vicino al cancello.
L’intera camerata lo seguiva di nascosto, trattenendo il respiro dall’emozione di vedere finalmente Pamuk Anne. Quando Yaşar svuotò il sacchetto ai piedi dell’albero, tutti si fecero avanti dai loro nascondigli per vederla. Ma Pamuk Anne non c’era.
Yaşar, celando la sua rabbia dietro lo stupore, esclamò:
"Che succede, sono forse un bugiardo?"
L’intera camerata rispose in coro:
"Dov’è Pamuk Anne, allora? Certo che sei un bugiardo!"
"Io lascio il cibo e lei viene a prenderlo, mica la vedo sempre!"
"E allora perché noi non la vediamo mai? Nessuno in questo quartiere ha mai visto un cane bianco."
"Credeteci o meno, fate come volete!"
Da quel giorno, sebbene il numero di chi chiedeva di Pamuk Anne e della sua storia fosse diminuito, ogni notte, più le inquietudini nel sonno aumentavano, più continuavano a crescere la mancanza e la curiosità nei suoi confronti. Ognuno metteva da parte un pezzo del suo pasto e lo spargeva per ogni angolo del cortile. I bambini del dormitorio, quando al mattino trovavano il cortile pulito, ne erano felici. Uccelli, gatti, ricci, corvi si appropriavano di ciò che era stato lasciato, mentre i bambini orfani diventavano i "genitori" degli esseri viventi che venivano nel loro giardino.
Pamuk Anne veniva davvero? E i suoi cuccioli, come stavano? Tutte queste cose erano reali o era solo una storia inventata da Yaşar? Nessuno sembrava preoccuparsene. Yaşar continuava a raccontare le storie su Pamuk Anne, cercando di disperdere le ombre, mentre nuovi bambini arrivavano, altri partivano e altri ancora crescevano e si preparavano a entrare nel mondo esterno…
...
Yaşar aveva compiuto diciotto anni e iniziava a sentire la paura e l’emozione di dover affrontare la vita insieme agli altri suoi amici. Lo Stato, come un padre protettivo, aveva trovato loro un lavoro e chiesto di restare sotto osservazione per un po’, comunicando i loro nuovi indirizzi. Yaşar, insieme a sei dei suoi compagni, aveva preso i fogli firmati e timbrati e aveva salutato gli altri orfani, coloro che li avevano cresciuti e gli insegnanti. Yaşar cercava di sorridere, ma non voleva lasciar andare i suoi occhi umidi, ormai abituati a piangere. La porta principale dell’orfanotrofio si stava aprendo piano piano e loro, in fila indiana, guardavano le loro nuove vite dalla soglia. La porta si stava aprendo lentamente. Il sole appena sorto li salutava con i suoi raggi diretti, spargendo tutti i suoi colori sulla strada. Poi la porta si chiuse, altrettanto lentamente.
Yaşar iniziò a fare i suoi primi passi, cercando di guardare il marciapiede dipinto dal sole. Quando si fermò, gli altri lo seguirono. Sul marciapiede opposto, un cane bianco li stava guardando. Si fissarono per un attimo, poi, allo stesso tempo, rompendo il silenzio, dissero:
"Pamuk Anne, la nostra cara mamma…"
Corsero verso il marciapiede e, abbracciando il cane bianco che scodinzolava, gridarono:
"Pamuk Anne, ci sei mancata tanto…"
Engin Akyürek
Quando un racconto ti fa piangere, vuol dire che l'autore ha fatto il suo lavoro. La storia triste di un bambino, che però non è stucchevole. Perché Yasar, ha tutta l'innocenza di quell'età. Nonostante non abbia conosciuto l'amore dei genitori, non smette di sognarlo. E la natura sente questo sentimento e attraverso il richiamo di un albero, delle sue radici, fa mantenere viva quella speranza, attraverso una creatura, pura, perché anche loro lo sono, come i bambini. Non so se era questo che voleva raccontare, ma è quello che mi ha trasmesso. Lacrime ma non di tristezza, ma di empatia. Come credo, ne ha Engin. Grazie🤍
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