CAN SIKINTISI - LA NOIA

Immagine di Kafasına Göre con il racconto di Engin Akyürek intitolato Can sıkıntısı - La noia - e i disegni di Başaran Karabulut

Racconto di Engin Akyürek dal n. 62 di Kafasına Göre – maggio/giugno 2025 –


 Traduzione in italiano



La noia è come una stanza d'albergo: gli oggetti sono al loro posto, ma ci si sente come un ospite. (Fernando Pessoa)


Una noia senza un perché aveva preso possesso del mio corpo. Le cose prive di motivo arrivano sempre così: in silenzio, di soppiatto… Guardavo dentro di me, mi frugavo l’anima come si osserva uno sconosciuto, interrogavo la memoria, cercando di trasformare eventi inaspettati in traumi impossibili. Ovunque andassi, ovunque guardassi dentro di me, non riuscivo a dare una spiegazione autentica a questa inquietudine. Se solo fossi riuscito a trovarne la causa, il mio animo si sarebbe riversato in una gioia impetuosa come un fiume che rompe gli argini e tutti i miei tormenti sarebbero svaniti.

Ero stanco di svegliarmi ogni mattina con la stessa sensazione. Cercavo di non farlo notare a mia moglie, che dormiva accanto a me da otto anni, ma l’inquietudine che avevo dentro si era insinuata perfino tra le lenzuola che ci avvolgevano, nella coperta a cui ci affidavamo con stanchezza. Ogni cosa aveva un odore. Soprattutto la noia… Era un odore che non veniva via né con il sapone né con l’ammorbidente e restava attaccato alla pelle. Sul mio volto era scritto tutto, riga per riga: andavo in giro come un giornale ambulante. Ogni volta che Nalan, mia moglie da otto anni, mi guardava in faccia, nei suoi occhi restava sospesa un’ignoranza incapace di leggere le emozioni. Sentivo che non mi capiva — oppure, come al solito ero io a interpretare tutto nel modo sbagliato, ma volevo dare un senso a questa situazione, per attribuire un significato alla mia noia immotivata. Era come se mi fosse stato assegnato un ruolo e io cercassi di interpretarlo al meglio. Mangiavo poco, dormivo poco, nascondevo i miei sorrisi, cancellavo subito ogni accenno di tenerezza che affiorava sul mio volto. Vivevo il mio ruolo come gli attori consumati… Ma quando sarebbe iniziata la scena? Quando sarebbe finita la mia parte?

Mi ero costruito una sala d’attesa interiore e lì dentro la mia anima contava il tempo. Stavo seduto davanti a una colazione senza anima. Non sapevo da dove cominciare e non riuscivo a immaginare come le frasi che avevo imparato a memoria nella mia testa sarebbero uscite dalla mia bocca. Staccai un piccolo pezzo di formaggio e lo lasciai cadere nella mia bocca arrugginita. Più lo masticavo, più cresceva e non riuscivo a mandarlo giù. Nalan, invece, senza nemmeno guardarmi, girava il cucchiaino nel bicchiere di tè con ritmo regolare:

“È il tuo formaggio preferito… Si trova a fatica, l’ho fatto prendere apposta.”

"Voglio divorziare."

Il pezzo di formaggio bloccato in gola cominciò a cadermi fuori dalla bocca. Nalan mi guardava in faccia e girava il cucchiaino del tè come se aspettasse una risposta. Non sapevo cosa provare nel sentire da lei quella frase che per tanto tempo avevo voluto dire io, senza mai trovare il coraggio. Mi aveva colto alla sprovvista.

“Non dici niente?”

Bevvi un bicchiere d’acqua tutto d’un fiato, per liberarmi dai pezzetti di formaggio appiccicati alla gola. Ero pieno di parole dentro di me, ma non riuscivo a formare una frase. Nalan posò il cucchiaino sul tavolo.

“Da mesi mi girano in testa queste parole... Aspettavo solo il momento giusto.”

Distolsi lo sguardo e iniziai a raccogliere le briciole di pane dalla tavola con le dita. Nalan continuava a parlare, mentre io infilavo quelle briciole in bocca, poco a poco.

“Ci siamo lasciati troppo soli. Stiamo soffrendo nella stessa casa.”

Era da tempo che non mangiavo qualcosa di così buono. Quando le briciole finirono, alzai la testa e la guardai dritta negli occhi.:

“Hai ragione. Ci siamo lasciati soli.”

“Quindi... lo ammetti?”

La guardavo in silenzio. Non riuscii a dire: "Lo pensavo anch’io… forse te l’avrei detto proprio stamattina, a colazione". Era lei ad aver fatto la domanda, ma la decisione spettava a me. Misi da parte, solo un po’, la mia noia e, con un tono di voce diverso, dissi:

“Tanto ormai la tua decisione l’hai presa.”

In certi momenti, essere sinceri è impossibile. Assumere il ruolo della vittima e scaricare tutta la responsabilità sull’altro… faceva stare meglio. Ma ora era necessario mettere l’ultimo punto. Anche se dormivamo nello stesso letto da otto anni, una frase poteva trasformarci in due estranei. I nostri corpi erano deboli come fini fili metallici e i nostri sentimenti inclini ad arrugginirsi e rompersi.

“Va bene. Divorziamo.”

Nalan era andata via piangendo, con qualche oggetto infilato nella sua piccola borsa. La tavola della colazione, senza vita, era morta e aveva cominciato a puzzare. In casa, un sentimento che non riuscivo a definire girava per le stanze, ma non si avvicinava a me. Pensavo di sentirmi sollevato e che questa inquietudine avesse finalmente trovato una spiegazione logica. Ora ero solo. Mi ero liberato del peso di un matrimonio infelice, una decisione era stata presa. Tutto sarebbe andato bene…

Nel giro di una settimana aveva fatto portare via le sue cose, mentre io non c’ero. Attraverso gli avvocati, le intenzioni, le richieste e le recriminazioni erano state risolte una per una. La giustizia aveva agito in fretta: divorziammo alla prima udienza. Che tutto fosse stato così semplice faceva un po’ paura, ma le mie inquietudini immotivate si stavano dissipando una a una, come se tutto stesse tornando al suo posto. Vivevo da solo, lontano dalle mie vecchie noie, nella mia casa di tre stanze e un salone. Dormivo molto, mangiavo troppo, ridevo di gusto; sentivo i colori e i profumi. Stavo bene. Mi ero ricostruito. Le mie risate si riversavano per le strade e nei locali, e non tornavo a casa quasi mai. Avevo una vita nuova di zecca, a chilometro zero…

Quando parlammo al telefono per la prima volta, tre mesi dopo, io sorridevo più del necessario, mentre nella sua voce c’era un’emozione indefinibile. L’oro rimasto in casa, i bracciali, l’orologio, i regali di nozze… erano ancora con me.

“Verrò a prenderli un giorno in cui sei libero.”

“Non disturbarti, li mando io.”

Ma le mie parole non ebbero alcun effetto. Aveva deciso che sarebbe venuta a casa. Voleva vedere i dettagli della mia vita senza di lei, capire in che stato fossi. Sentivo che Nalan avrebbe cercato, poco a poco, di rientrare nella mia nuova vita. Quella mattina mi alzai presto ed andai in un centro commerciale. Comprai un cappotto da donna, un profumo e qualche accessorio. Non avevo una fidanzata, ma era l’unico modo per tenere Nalan a distanza. Mentre facevo quegli acquisti, mi sentivo come un falsario: arrossivo, come se stessi facendo qualcosa di vergognoso. Sarebbe arrivata verso le due del pomeriggio. Appesi il cappotto nel posto più visibile dell’ingresso, riempii la casa di profumo e lasciai uno spazzolino da denti e il dentifricio accanto al lavandino.

“Benvenuta.”

“Ciao…”

Il profumo l’aveva colpita in pieno volto. Quando appese il cappotto all’attaccapanni, due cappotti dello stesso colore e taglio ci guardavano. Il sorriso nelle sue fossette si mescolò alla sua voce:

“Ho dimenticato qui il mio profumo?”

“Come?”

“La casa profuma di quello che usavo io.”

Rimasi in silenzio, incapace di rispondere. Dopo otto anni di matrimonio, non sapevo nemmeno quale profumo usasse… ma le cose che avevo comprato l’avevano fatta tornare. Era la donna che conoscevo, quella con cui andavo più d’accordo. Cose che pensavo di aver dimenticato si erano replicate da sole, da qualche parte dentro di me. Gli oggetti che era venuta a prendere erano sul tavolo. Un vento leggero faceva danzare le tende. Era successo lo stesso quando Nalan aveva lasciato la casa: un’emozione indefinibile, forse una leggera brezza, aveva attraversato tutte le stanze.

Eravamo seduti in salotto, entrambi fissavamo la scatola sul tavolo. Lo sentivo: quella sensazione che vagava per le stanze stava per entrare in salotto. Nalan mi guardava e aspettava che dicessi qualcosa. Le tende ondeggiavano, la porta si sbatteva al muro e quella presenza che si aggirava per casa si avvicinava a me. Mi stava portando tutti i ricordi raccolti da ogni stanza: tutto ciò che aveva nascosto per mesi. Avevo ceduto alle lacrime e dentro di me qualcosa iniziava a scorrere impetuosamente… Non riuscivo più a trattenermi: la maschera che avevo in volto, così posticcia, stava cadendo. Nalan si era avvicinata alla porta. Aveva guardato i cappotti nell’ingresso, poi aveva preso il suo e, senza indossarlo, aveva aperto la porta. Trattenendo le lacrime, mi diressi verso la porta e, prima che si chiudesse, allungai una mano e dissi:

“Nalan… vuoi sposarmi?”


                                                                                               Engin Akyürek

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