ARAF - PURGATORIO


Immagine di Kafasına Göre con il racconto di Engin Akyürek intitolato Araf - Purgatorio

Racconto di Engin Akyürek dal n. 61 di Kafasına Göre - marzo/aprile 2025 -

Traduzione in italiano 


Aveva resistito con tutte le sue forze all’idea di andare in pensione. Almeno, svegliandosi al mattino, sapeva di avere un posto dove andare, un’occupazione. Il lavoro da funzionario pubblico a cui aveva dedicato quarant’anni, più che un impiego, era un rifugio segreto per la sua anima. Come se indossasse il costume di una pessima rappresentazione teatrale, il suo mondo interiore traboccava da ogni angolo e ormai non riusciva più a nascondere le sue ombre. La vita da funzionario pubblico, intrappolata tra quattro fredde mura, era stata allo stesso tempo il suo rifugio e il suo inferno. Il signor Tufan (tufan vuol dire diluvio, alluvione, ndt) si era ritrovato pensionato, dopo quarant’anni di servizio, con una sola firma. I suoi lati più oscuri, diffusi in ogni angolo del suo essere come una ragnatela, erano sempre pronti a scattare: bastava che si trovasse di fronte alla bontà o alla compassione, perché subito le aggredisse, annientandole. La vita da funzionario pubblico almeno gli aveva permesso di nascondere questa natura e, anche se non era amato, almeno gli altri lo avevano accettato. Il signor Tufan lo sapeva bene: nessuno lo amava, ma non se ne lamentava affatto. Conosceva il suo carattere e sapeva di non avere motivi per essere amato. Prima di morire, la signora Melahat gli aveva detto: “Avremmo potuto amarci di più.” Lui era rimasto impassibile a quelle parole: non aveva risposto, non si era commosso, non aveva trattenuto il respiro. La signora Melahat aveva lasciato questo mondo guardandolo dritto negli occhi. Dopo il funerale della moglie, il signor Tufan aveva iniziato a camminare da solo nel cimitero, leggendo le iscrizioni sulle lapidi, cercando di capire cosa avrebbe dovuto provare. Pensava che avrebbe dovuto piangere o almeno che gli si sarebbero dovuti inumidire gli occhi. Ma non successe, non riuscì a piangere, gli occhi rimasero asciutti. Sapeva bene che certi sentimenti non nascono dal pensiero, ma dall’anima. Amava sua moglie, era profondamente addolorato per la sua morte, eppure non riusciva a esprimerlo, non riusciva a spiegarlo nemmeno a se stesso. Il signor Tufan era sempre stato così, fin da quando aveva memoria… La signora Melahat gli ripeteva ogni giorno che avrebbe dovuto vedere uno psicologo, ma lui restava in silenzio e, con un’espressione impassibile, diceva tutto senza dire nulla. Melahat Hanım aveva desiderato ardentemente un figlio. Nonostante le cure mediche a cui si era sottoposta di nascosto ma, come diceva lei: “l’Altissimo non glielo aveva concesso.” Il signor Tufan era fatto così: non rivelava mai i suoi sentimenti o i suoi pensieri, ma trasformava subito in realtà le intenzioni che maturava dentro di sé. In fondo, non aveva mai desiderato avere figli; sentiva che sarebbe stato un padre incapace di affetto, uno di quelli che non accarezzano mai la testa dei propri bambini. Il signor Tufan era un uomo che riusciva a essere solo ciò che sentiva dentro, a vivere solo ciò che era capace di provare. Anche suo padre era stato un uomo così e forse, se gli avesse mai accarezzato la testa o ascoltato almeno una sua frase, le facce oscure che si erano radicate dentro di lui, avrebbero lasciato il posto ai sorrisi dei bambini. Ma così non era stato. Si chiedeva se avesse mai davvero desiderato essere così, ma non se ne lamentava: accettava il suo modo di essere con la stessa eleganza con cui portava un abito ben confezionato.

Ora si ritrovava solo, con in mano una misera buonuscita e un’enorme solitudine. La prima settimana di pensione l’aveva passata vagando per i parchi, girando attorno al suo posto di lavoro, passeggiando tra mercati nella speranza di trovare un nuovo impiego. Ma era stato tutto inutile. Il buio che portava dentro sembrava soffocarlo, paralizzarlo. Dopo un mese, aveva smesso perfino di uscire di casa. Aveva iniziato a vivere in una stanza di quella casa dal cuore freddo quanto lui.

Poi gli era venuta un’idea: vendere la casa che aveva acquistato indebitandosi e in cui aveva investito tutti i suoi risparmi, aggiungere la liquidazione della pensione e comprare un terreno. Le idee che gli balenavano in testa le analizzava, le soppesava, e solo dopo arrivava a una decisione. Aveva chiuso con la casa in cui viveva. Una casa con giardino, fuori città, gli avrebbe dato qualcosa di cui occuparsi e, allo stesso tempo, avrebbe potuto dedicarsi all’agricoltura. Forse così le voci dentro di lui si sarebbero placate un po’, e almeno nel sonno avrebbe trovato un po’ di pace. A volte gli parlava suo padre, a volte la signora Melahat. Altre volte, invece, era tutta la sua infanzia a riunirsi nella sua mente, raccontandogli le proprie sofferenze. Era stanco di ascoltare se stesso, era stanco di sentire sempre le stesse frasi…

Per un anno intero si era impegnato con grande sforzo: il terreno, il progetto, il comune… si era occupato di tutto, uno per uno, e nel pieno rispetto delle regole era riuscito a realizzare una casa con giardino. Aveva persino un piccolo pezzo di terra da coltivare. Sembrava che le voci dentro di lui si fossero un po’ placate. Ma il signor Tufan lo sapeva bene: ogni volta che si fermava, un esercito di pensieri rimaneva in attesa dentro di lui, pronto a scattare non appena si arrestava. Ora, però, si alzava con il sorgere del sole e, quando calava il buio, prima il suo corpo e poi i suoi occhi si chiudevano per la stanchezza. Un giorno, mentre era intento a lavorare in giardino, sentì un suono proveniente dall’interno della casa. In un primo momento non lo riconobbe, poi, con un respiro profondo che rivelava la sua sorpresa, capì di cosa si trattava. Il telefono fisso, che aveva fatto installare “per ogni evenienza”, stava squillando. Prima di rispondere attese un attimo, perché era certo che nessuno avesse il suo numero e solo quando ricevette l’approvazione interiore, si sentì sicuro: a parte il Comune e il muhtar (rappresentante del quartiere, ndt), nessuno sapeva che si fosse trasferito lì o che avesse un nuovo recapito.
“Pronto.”
“Tufan, salve! Come stai?”
Quella voce gli sembrava familiare, ma non riusciva a visualizzarne il volto nella mente.
“Mi dica, con chi parlo?”
“Ma dai, sono io, Iskender! Il direttore Iskender!”
“Ah… signor Iskender! Sono sorpreso. Come ha avuto il mio numero?”
“Io so come trovarlo! Congratulazioni per la nuova casa, per la nuova vita.”
Il signor Tufan era davvero sorpreso. Il direttore Iskender non lo aveva mai sopportato e aveva fatto di tutto per farlo andare in pensione.
“Grazie, signor Iskender. La ascolto…”
“Mio caro Tufan, ho un favore da chiederti. Mio nipote ha preso un cane, ma starà un paio di mesi all’estero. Sai com’è, noi viviamo in un appartamento, mia moglie poi è abbastanza schizzinosa, non sopporta peli e simili.”
“Non capisco…”
“Mio nipote non è riuscito a trovare un posto con giardino. Il cane è abituato agli spazi aperti, in un luogo chiuso non potrebbe stare. E poi, non si fida di quei posti a pagamento. Così ho pensato a te.”
“Non capisco…”
“Dai, che c’è da capire? Non potrebbe stare nel tuo giardino?”
Il signor Tufan aveva afferrato il senso fin dalla prima frase, ma non riusciva a comprendere la sfacciataggine e la sicurezza dell’uomo.
“Come?”
“Non preoccuparti, ail cibo e a tutte le spese ci pensiamo noi, basta che tu dica sì.”
“Io non ho mai accudito un cane, signor Iskender. Non sono capace.”
“Ma dai, cosa c’è da saper fare? Gli dai da mangiare e da bere, e basta!”
“Per quanto tempo diceva?”
“Due mesi, massimo tre.”

A quanto pareva, la carriera da funzionario era qualcosa che ti restava appiccicata addosso, non bastava una firma per liberarsene. Il rapporto tra dirigenti e impiegati continuava anche oltre il lavoro. Il signor Tufan era uno che sapeva dire di no con facilità. O meglio, spesso non diceva di no, restava in silenzio e lasciava la risposta sospesa nel vuoto. Poiché il direttore Iskender conosceva bene questa sua abitudine, incalzò: “Va bene, allora domani mattina presto ti porto il cane. Non ti preoccupare, ha già la sua cuccia, la faremo sistemare in giardino. Tu non dovrai preoccuparti di nulla.”

Come promesso, il giorno dopo il direttore Iskender arrivò di buon mattino con il cane. Sul sedile posteriore dell’auto, un pastore tedesco osservava il giardino con uno sguardo timoroso.

“Mio caro Tufan, eccolo qui. È un pastore tedesco, maschio, ha appena compiuto un anno. È tranquillo di carattere, tra poco scenderà dall’auto…”

L’espressione priva di mimica del signor Tufan rifletteva perfettamente la sua riluttanza. Più che il cane guardava İskender, la sua sfacciataggine, la sua bruttezza... Al di fuori del lavoro gli sembrava persino più brutto. Era un uomo smunto, sgradevole, con una voce ruvida come carta vetrata...

“Mio caro Tufan, è un cane speciale, se volessi comprarlo costerebbe un occhio della testa. Comunque, devo andare, ho delle cose da fare. Stammi bene!” Il direttore Iskender sgommò via in una nuvola di polvere, lasciando il signor Tufan da solo nel giardino con il cane. L’animale osservava la casa e il giardino con occhi inquieti, come se volesse comunicare il suo disagio.
Il signor Tufan gli tirò leggermente il guinzaglio per portarlo verso la cuccia:
“Accidenti, non ci siamo nemmeno fatti dire il tuo nome! Ma che razza di uomo è quello, non poteva almeno dirmelo?”
Guardò il collare, ma non c’era scritto nulla.
“Ascolta, questa è casa mia, ci sono delle regole e tu dovrai rispettarle!”
Il pastore tedesco sembrava in difficoltà, girava in tondo nervosamente, ansimando e con la lingua di fuori.
“Hai fame? Vuoi dell’acqua?”
Il signor Tufan mise davanti all’animale una bottiglia di plastica tagliata, improvvisata come ciotola. Il cane si avventò sull’acqua, dimostrando di essere assetato. Bevve rumorosamente, senza fermarsi.
Il signor Tufan, che in tutta la sua vita non aveva mai dato nemmeno un pezzetto di simit (ciambella di pane con semi di sesamo, ndt) a un uccello o un goccio d’acqua a una creatura, rimase ipnotizzato a guardarlo.
“Hai fame?”
Dallo sguardo del cane, capì che lo era.
"Maledetto quello là! L’ha portato qui affamato e assetato!"
Dopo essersi saziato, il pastore tedesco si era disteso davanti alla cuccia come se vivesse lì da tempo e aveva iniziato a osservare il signor Tufan.
Mentre annaffiava il giardino, Il signor Tufan continuava a a guardare il cane con aria accigliata. Posò il tubo che aveva in mano e si avvicinò a lui:
"Così non va. Visto che sei qui, lascia che ti dia un nome. Ogni creatura merita un nome."

Il pastore tedesco lo guardò come se aspettasse una risposta, poi abbaiò.
"E niente abbai mentre si dorme, d’accordo?"
L’animale lo fissò di nuovo, come se avesse capito:
"Bau bau…"
"Per quanto riguarda il tuo nome… Io sono Tufan. E tu… tu sarai Fırtına." (fırtına in turco vuol dire tempesta, ndt)

Dopo la morte della moglie, era la prima volta che il signor Tufan parlava così tanto. Ad eccezione dalle voci nella sua testa, c’erano giorni in cui dimenticava persino il suono della propria voce. Quella notte, nessuno venne a trovarlo nei suoi sogni. Non parlò con suo padre, né con la signora Melahat. Iniziò invece a raccontare a Fırtına i pensieri che non aveva mai confidato a nessuno. Tirava fuori una sedia, si sedeva di fronte al cane e rovesciava parole che per anni non era riuscito a mettere insieme in una frase.

"Avremmo potuto amarci di più… Questa era stata l’ultima frase della signora Melahat prima di morire. Non puoi immaginare quanto mi abbia ferito. E non so nemmeno perché non sia mai riuscito a esprimere il mio dolore. Ho trascorso settant’anni a ripetermi in modo assurdo ‘sono fatto così’. Avevo trovato un modo semplice per ingannare me stesso..."

Alla fine del secondo mese, erano ormai come due conoscenti che si capivano bene e il loro rapporto riservato continuava. Il signor Tufan aveva buttato via il cibo scadente che il direttore Iskender gli aveva portato e aveva iniziato a comprare il miglior cibo possibile, informandosi a lungo prima di sceglierlo. Inoltre, condivideva con lui anche il brodo di carne che preparava in casa. Il tempo passava. La scadenza indicata dal direttore Iskender era ormai trascorsa da un pezzo.
"Lo vedi, vero, Fırtına? Quello schifoso non ha chiamato nemmeno una volta, non ha chiesto se va tutto bene, se è tutto a posto."

Il signor Tufan aveva già staccato il telefono alla fine del primo mese. Anche se il direttore Iskender avesse provato a chiamare, non avrebbe potuto raggiungerlo. Forse si sarebbe preoccupato e sarebbe venuto di persona; se fosse venuto, il signor Tufan aveva già pronta la sua risposta: dentro di sé, trovava sempre una spiegazione logica per ogni cosa.

Erano passati cinque mesi e nessuno aveva bussato alla sua porta. Anche Fırtına si era ormai abituato al giardino e al signor Tufan.

Le nuvole si erano lasciate andare, come se stessero sfogando il loro peso interiore. La pioggia, che non cadeva sul centro città, si riversava sull’area dove viveva il signor Tufan. I fulmini squarciavano il cielo, i tuoni rimbombavano con un fragore assordante nell’aria pulita e una tempesta spazzava le strade polverose, colpendo porte e camini. Quel giorno, il signor Tufan non era uscito di casa. Anche Fırtına era rimasto nella sua cuccia ad aspettare che la pioggia si placasse. Verso mezzogiorno il sole fece capolino e l’arcobaleno si unì al profumo della terra bagnata.
Ma il signor Tufan non si vedeva da nessuna parte. Fırtına uscì dalla sua cuccia e si avvicinò alla finestra, appoggiando le zampe sul vetro. Quel giorno il signor Tufan non era uscito di casa… Per due giorni interi, Fırtına abbaiò fino a sfinirsi, si fermava a riposare e poi ricominciava ad abbaiare... Alla fine, uscì dal giardino, fermandosi di tanto in tanto, annusando qua e là, alla ricerca di un essere umano. Vide una luce: con il comignolo fumante… Accelerò il passo, ignorando i cani che gli abbaiavano contro, e arrivò davanti alla casa. Iniziò ad abbaiare disperatamente, come se stesse cercando di raccontare il suo problema.
Gli abitanti della casa erano in fila davanti alla porta come le perle infilate su un filo. Il muhtar aveva zittito le voci che gridavano al cane: "Via! Sciò!". Lui aveva riconosciuto subito Fırtına. Queste persone, dalle anime bruciate dalla vita, in situazioni del genere brillavano come santi. Con Fırtına davanti a sé, il muhtar si affrettò verso la casa con il giardino. Ruppe la porta chiusa a chiave con un'ascia ed entrò dentro. Il signor Tufan era morto. Accanto a lui c’era una busta. Il muhtar la aprì:
"Lascio la mia unica proprietà, la casa con il giardino, al mio cane Fırtına, che mi ha amato tanto." Tufan Kara

Fırtına, come se avesse percepito tutto, andò a mettersi davanti alla cuccia dove ogni giorno parlavano e, abbaiando, gli diede il suo addio.



                                                                                            Engin Akyürek

Commenti

Post più popolare