HAVADA ANILARIN KOKUSU VAR - C'E' PROFUMO DI RICORDI NELL'ARIA

 

Copertina di Kafasına Göre per il racconto di Engin Akyürek intitolato Havada anıların kokusu var - C'è profumo di ricordi nell'aria

Racconto di Engin Akyürek dal n. 4 di Kafasına Göre - ottobre/novembre 2015 


Con una versione rivista e corretta, Havada Anıların Kokusu Var è uno dei racconti presenti anche in Sessizlik, il primo libro pubblicato da Engin nel 2018. 




Quando il tempo iniziava a inviare il suo caldo rovente, si poteva quasi cuocere un pane di Trabzon sulla testa delle persone. Teste come tavole da forno infarinate di crusca, ascelle chiazzate di sudore come macchie di un dalmata, chi cercava di coprirsi aveva trasformato la parte sotto i vestiti in una sauna, mentre dall’alto sembrava un terrestre cacciato dall’inferno…
Ebbene… Quando il caldo diventava davvero insopportabile e l’estate si metteva a "giocare con le sue impostazioni", spingeva l'uomo nella sua forma più primitiva a cercare una spiegazione. Alcuni ringraziavano, altri esclamavano "Che Allah benedica chi ha inventato l'aria condizionata", e altri ancora, fissando lo sguardo nel vuoto e inspirando l'aria con il naso, non proferivano parola, convinti di poter utilizzare quell'aria per sempre. Il caldo provocava negli esseri umani tali stati d'animo che la mia splendida patria, circondata su tre lati dal mare, sembrava essere stata trasformata in una gigantesca piscina gonfiabile. Famiglie con bambini, zie, cognate e sorelle, tutti mano nella mano, erano scesi in strada alla ricerca di un po' di sollievo. Il mio popolo, alla ricerca di un po’ d’acqua dove immergere i piedi, affollava strade, aerei e treni con i suoi cappelli di paglia e, come se non bastasse, la dolcezza festosa delle vacanze, densa al punto giusto, creava nello stomaco una sensazione di sazietà degna di un banchetto in un hotel a cinque stelle.
Non c'era niente da fare contro il caldo… Cercare di sconfiggere la natura era una stupidità tipicamente umana, tanto quanto l’illusione di controllarla, che non andava oltre l’alzare il condizionatore a sedici gradi e al punto che mi ero ritrovato nel punto più fresco della casa a rotolare su me stesso, nel tentativo di impacchettarmi come un kebab di verdure senza carne.
Le mie mani e le mie braccia si erano incollate alla poltrona, mentre finestre e porte erano spalancate; per evitare che il vento entrasse come un ospite indesiderato, lo avevo invitato io stesso con tutto il corpo, dalla testa ai piedi.  La cosa migliore da fare con questo caldo, proprio come faceva la gente previdente del mio paese, sarebbe stata quella di trovare un posto dove immergere i piedi nell’acqua per qualche giorno. Anche se cercavo un biglietto con l'internet caricato nel mio telefono, la pianificazione meticolosa della mia gente mi commuoveva:  tutti avevano già comprato il loro biglietto e c'era chi aveva persino preparato la valigia per fare da comparsa nelle lunghe code mostrate nei telegiornali. Quando internet non bastava, aveva più senso ricorrere alla tecnologia di comunicazione più primitiva: così mi misi a chiamare una per una, tutte le compagnie dell'autostazione.
Avevo ancora la speranza di trovare un posto libero su un autobus e proseguivo ostinato nella mia ricerca continuando a cercare senza nemmeno prendere in considerazione le offerte di posti nel vano bagagli o al posto dell’assistente dell’autista. Alla fine, venni indirizzato a una compagnia di cui non avevo mai sentito parlare prima e riuscii ad acquistare un biglietto per un posto vicino al finestrino.

Con il mio costume da bagno, le ciabatte, lo spazzolino da denti e la mia valigia preparata in un batter d'occhio, mi stavo dirigendo verso la stazione degli autobus. La decisione di rimandare il caldo anche solo per qualche giorno aveva acceso in ogni mia cellula un’euforia infantile simile a quella che precede le feste: mi sentivo leggero, quasi frizzante, e la mia bocca, da perfetto sognatore perso nei suoi pensieri, già augurava buone feste a tutti. Entrando in autostazione, capii tutto: gli autobus formavano vere e proprie barricate, mentre la gente correva da una parte all’altra come uomini del Medioevo in fuga dalla peste… L’autobus si avvicinò lentamente, sibilando, come se fossimo stati noi a farlo aspettare per due ore e perfino la porta si aprì con un’aria capricciosa, tanto che mi sentii in dovere di sventolare il mio biglietto con l’entusiasmo di un bambino alla festa del 23 aprile (festa della sovranità nazionale e dei bambini, ndt). Tutti erano nervosi e irritati. Tra due valigie trasformate in culla, i neonati dormivano beati, ignorando i loro padri che litigavano con l’autista, senza cedere né alla stanchezza né alla propria umanità. In situazioni del genere sono sempre rimasto calmo: quelli che si lamentano di più, che urlano “E’ uno scandalo! Ci hanno fatto aspettare due ore!”, sono gli stessi che, appena saliti, si tolgono le scarpe e reclinano il sedile al massimo… e a quel punto, dai, provate voi a dare una spiegazione freudiana alla cosa.

Come se fossi diventato amico intimo dell’autobus, camminavo con calma lungo il corridoio cercando il mio posto, il numero trentasette. Ventinove, trenta e poi, in un attimo, superavo il trentacinque. Ma ecco che, proprio sul posto che sarebbe stato di mia proprietà per le prossime nove ore, vedevo già qualcuno seduto: 

"Scusi, quello è il mio posto," dissi.

Non disse né ‘scusi’ né si prese la briga di rispondere con parole di altre lingue entrate nel nostro vocabolario. Silenziosamente, si spostò direttamente al suo posto, il numero trentasei, senza tirare indietro le gambe, senza fare spazio, come se volesse consolidare la sua posizione con il sedere. Io, invece, rimboccandomi i pantaloni, saltai sopra di lui come si fa per attraversare un ruscello e mi aggrappai al mio posto, il numero trentasette. Forse l'amore per il posto assegnato era qualcosa del genere… L’anziano seduto sul posto numero trentasei si trovava in una via di mezzo tra la vecchiaia e quella fase indefinita che sta oltre la mezza età. Sul suo volto si mescolavano la saggezza e l’asprezza che l’età porta con sé. Quelle rughe profonde ed espressive, tipiche degli uomini della sua età, si erano insinuate anche nei suoi occhi, come se vi avesse immagazzinato ogni esperienza vissuta.

L’autobus iniziava a riempirsi, le piccole dispute sui posti lasciavano il posto alle richieste d’acqua. Lo sguardo che l’assistente rivolgeva a chi chiedeva acqua ancora prima della partenza mostrava tutta l’ospitalità del viaggio. L’autobus partì in un modo tutt’altro che delicato e ci mettemmo in viaggio. L’anziano, a cui cercavo di non toccare i gomiti, fissava un solo punto.  L’espressione nei suoi occhi e il suo silenzio sembravano la ninna nanna di qualcosa che cercava di tenere sopito dentro di sé. Volevo parlare con lui, anche solo poche frasi legate all’esperienza della sua età sarebbero bastate a soddisfare la mia curiosità. 

Aprii io la conversazione con un semplice "Buon viaggio". Lui, con un cenno del capo che oscillava tra il sorridere e il restare serio – un'espressione di cui non riuscivo a cogliere il sentimento preciso – rispose "Buon viaggio" con un tono che mi faceva capire che non avrei dovuto aggiungere altro. Rispettare gli altri e non disturbarli erano le prime cose che le madri insegnavano ai loro figli, inoltre non si parlava con gli sconosciuti e non si accettava nulla da loro, anche se, a dire il vero, l’anziano non aveva granché da offrirmi. Ogni volta che una persona fissava un punto lontano senza battere ciglio, mi veniva da pensare che stesse parlando con qualcuno che nessun altro poteva vedere o conoscere.

“Prego, se vuole può sedersi accanto al finestrino.” dissi, gettando le basi per un ambiente in cui lui avrebbe potuto creare la sua privacy… Durante i lunghi viaggi, appoggiare la testa al finestrino poteva trasformare un tragitto noioso in un'atmosfera fiabesca, proprio come i bambini che sognano sotto le coperte. Ero curioso di conoscere gli eroi delle favole di quell’uomo.

"Grazie, non c'è bisogno", rispose. Nonostante il caldo soffocante e il biglietto trovato a fatica, l’anziano continuava a catturare la mia attenzione. Sembrava aver lasciato il mondo alle spalle, come se il suo sedile si fosse trasformato in una pietra sepolcrale e lui, insieme all’autobus, stesse viaggiando verso il proprio paradiso, portandoci con lui alla salvezza. La rabbia sul suo volto, i ricordi custoditi come un tesoro, erano vecchi quanto la steppa che stavamo attraversando. Dato che lo zio aveva distrutto tutti i ponti comunicativi tra di noi, appoggiai la testa contro il finestrino. Considerando il volume del mio corpo e quello dello zio, tra me e lui avremmo potuto costruire un nuovo posto a sedere. Dopo un po’, il caldo all’interno aveva già creato una sorta di confine messicano tra me e lui.  Dopo aver premuto il pulsante di chiamata almeno quindici volte, il nostro assistente di viaggio, più spavaldo perfino dell’autista, finalmente arrivò.

“Ooooo! Ma qui fa un caldo pazzesco, fratello!". Sfiorava con le mani la ventola dell’aria condizionata, andava avanti e indietro verso l'autista, accendeva e spegneva i pulsanti, mentre l’anziano continuava a fissare lo stesso punto. Poi, con un tono che lasciava già intendere la conclusione, annunciò:  "Fratello, l’aria condizionata del tuo sedile è rotta, per questo soffia aria calda." Con un nervosismo che non poteva andare oltre un semplice "Capisco", chiusi la ventola con un sacchetto di plastica. Forse l’aspetto più interessante di tutto il viaggio era il fatto che l’anziano non facesse alcun commento sulla situazione e non la trasformasse in una questione di stato. A volte, il miglior compagno di viaggio è quello che non parla affatto e, se possibile, dorme senza russare. Accettando la realtà, cercai di trasformare anche il suo silenzio in una ninna nanna per addormentarmi. A quanto pare, il fruscio del sacchetto incollato alla bocchetta dell’aria condizionata e il calore che mi riempiva i polmoni avevano trovato un’inaspettata armonia, perché mi addormentai piano piano. Sentendo la saliva che mi colava dalla bocca, riuscivo perfettamente a calcolare il movimento per tirare su nel momento esatto in cui stava per gocciolare, proprio come quei bambini col naso che cola. La mia testa rimbalzava leggermente contro il vetro e mentre i miei occhi riconoscevano il luogo in cui mi trovavo, le immagini nella mia mente ne disegnavano uno molto più grandioso. Dentro la mia testa stavo creando un gioco: affrontare un viaggio di nove ore con un impianto di climatizzazione difettoso che soffiava aria calda non sarebbe stato sopportabile senza una strategia. Appoggiai la testa al finestrino dell’autobus, trasformandolo in uno schermo cinematografico e, come le auto che sfrecciavano nella corsia opposta, anche la mia mente corse all’indietro. Attraversavo l’altra corsia, muovendomi di corsa tra camion e automobili, come se avessi dovuto raggiungere qualcosa in fretta. Più acceleravo, più un’inaspettata stanchezza, insolita per la mia età, mi appesantiva le braccia e le mani. Quando vidi il mio volto riflesso nel finestrino di un’auto, capii tutto. Mi ritrovavo improvvisamente invecchiato. Sembrava quasi che il tempo mi avesse concesso un trattamento di favore, portandomi direttamente a quel punto, come in un sogno surreale. Rallentavo il passo e continuavo a camminare. La strada si faceva sempre più deserta, mentre il traffico restava ostinatamente congestionato, come in attesa dei bambini che vendono fazzoletti. Attraversando le auto, scrutavo il mio volto, osservavo il mio sguardo, le mie mani, le rughe. Quando i miei occhi incrociavano quelli giovani e pieni di vita degli automobilisti, non mancavo di rispondere con un sorriso adatto alla mia età. Più camminavo, più vedevo le persone che amavo. Anche solo in sogno, rivedere i propri cari doveva avere un effetto ridicolo sul mio corpo addormentato, perché mi ritrovavo a sbavare senza nemmeno riuscire a trattenere la saliva. 

Volevo salutare i miei cari, ma non solo non li vedevo invecchiati, anzi, mi sembravano tutti più giovani. Camminavo verso una ragazza che mi fissava in fondo alla strada: il suo sorriso era così bello che perfino quelle terre desolate si tingevano di verde all’istante. Con una tecnologia che avrebbe fatto invidia al cinema di Hollywood, arricchivo il mio sogno, unendo i miei occhi segnati dagli anni al cuore ancora giovane. La guardavo con dolcezza, ma non osavo parlare: temevo che, appena avessi pronunciato una parola, tutto si sarebbe dissolto in bolle di sapone. Sapevo anche che dovevo andare. Eppure, anche in quel sogno, in un'immagine sfocata, sorridevamo così intensamente che, mentre riprendevo il cammino, alzavo la mia mano invecchiata come a dire: "Ti troverò da giovane". Continuavo a sorridere. Tra le auto in movimento, qualcuno che si muoveva con la mia stessa urgenza attirava la mia attenzione. Man mano che mi avvicinavo, sentivo che anche lui stava cercando me. E quando lo guardai negli occhi, lo riconobbi. Il vecchio che sedeva accanto a me sull’autobus ora aveva un corpo giovane ed era venuto a confrontarsi con il mio corpo invecchiato.

“Come stai?” 

Fu lui a iniziare la conversazione e questo non mi sorprese affatto. 

“Vieni, attraversiamo la strada e sediamoci.” dissi io. 

Camminavamo lentamente e lui, con rispetto per la mia età, mi lasciava passare. Lungo il bordo della strada costruii una panchina su cui sedermi, fatta dei miei ricordi più vecchi, sepolti nel subconscio. Non appena ci sedemmo, volli essere io a pronunciare la prima frase, perché mi sembrava ci fosse molto di cui parlare. 

Feci una domanda che nemmeno io mi sarei aspettato di porre: 

“Se potessi rinascere, cosa vorresti essere?” 

Aspettavo la risposta con un’inaspettata curiosità, raddrizzando il mio corpo invecchiato. Guardando nel vuoto, proprio come il passeggero del posto 36, rispose: 'Vorrei essere di nuovo me stesso, solo per poter amare ancora una volta le persone che ho amato'. Proprio come nei film di Yeşilçam, quando, nelle frasi più belle, nelle conversazioni più profonde e nelle immagini più suggestive, l’inquadratura si alza verso le nuvole, l'assistente di viaggio, con le braccia che spuntavano dalla sua camicia azzurra a maniche corte, mi scosse leggermente la spalla, girando la sua scena personale.

“Fratello, vuoi un muffin?”

“Grazie, fratello.”

Proprio quando stavo afferrando qualcosa di significativo negli angoli nascosti del mio sonno, essere riportato alla realtà da un muffin carico di carboidrati mi irritò. Nel momento in cui l’assistente mi porgeva il dolcetto, incrociai lo sguardo dell’anziano. Mi guardava con un sorriso luminoso, con quegli occhi freschi e vividi che portava con sé dai suoi giorni di gioventù e dentro di me iniziò a scorrere un senso di leggerezza, fresco come i fiumi cristallini. L’assistente, con la sua camicia azzurra a maniche corte e un sorriso che non avevo incontrato in nessun angolo del mio sogno, dopo aver servito il tè all’anziano, mi fissò con una smorfia divertita e disse:

"Tieni fratello, ti do anche un po’ d’acqua. Hai parlato da solo per tutto il tempo, avrai la gola secca."

Mentre l'autobus proseguiva il suo viaggio, io e l’anziano mangiammo i nostri muffin, sorridendo insieme.



                                                                                          Engin Akyürek


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